“Come ci siamo fottuti il Paradiso Terrestre”, il primo Capitolo di “Alle donne piace soffrire?”

 

copertina libro Vi propongo un estratto dal primo capitolo: una specie di C’era una volta… dove al principio noi donne eravamo addirittura Dee, mica come nelle fiabe dove le principesse sono tutte mezze rimbambite. Ad un certo momento qualcosa andò storto, ma parecchio storto. Quelle cose così storte che non si raddrizzano più, come un chiodo quando si piega.

Il libro Alle donne piace soffrire? si trova su Amazon in formato cartaceo e ebook; l’edizione del 2017 è stata riveduta e ampliata nell’aprile del 2019. Se non avete un e-reader Kindle potete scaricare comunque la App di Amazon per leggere il libro su pc, tablet o cellulare.

Non mi dilungo oltre e lascio la parola alla storia.

Come ci siamo fottuti il Paradiso Terrestre

C’è stato un tempo molto lontano in cui il mondo era tutta un’altra cosa: immaginate un posto dove donne e uomini vivevano in armonia, e le donne erano venerate come Dee. Il loro corpo era capace di due magie incredibili: uno sfrenato piacere sessuale e il dono della vita; il sesso è sempre stato in gran voga, ma capite bene che senza tv, Internet e smartphone, era anche l’unico svago insieme a tramonti mozzafiato su paesaggi incontaminati.

In quel tempo primordiale, diciamo nel Paleolitico Superiore, il Pianeta era meraviglioso, un Eden intatto che non lasciava presagire l’avvento dell’isola di plastica alla deriva nell’Oceano Pacifico; si viveva poco ma intensamente, in profonda connessione con l’energia dell’Universo: gli esseri umani erano quattro gatti, bastava distrarsi un attimo e si finiva nelle fauci di un leone delle caverne come snack ipocalorico (che di ciccia addosso dovevamo averne davvero poca). Per questo motivo la Natura, astutissima, predispose nel bacino della donna un potente e variegato sistema neurale che le provocava grandiosi orgasmi plurimi e una voglia praticamente insaziabile: non c’erano inibizioni culturali o religiose, il sesso era disinibito e poligamo, era quel che la Natura aveva previsto fosse, un gratificante contorno alla riproduzione. La sessualità era allo stesso tempo animale e spirituale: l’estasi del godimento connetteva la donna con una dimensione mistica, la felicità post coito consolidava i legami, la rete neurale generosamente distribuita nella pelvi femminile stimolava nella sua mente la forza e l’assertività. Avere quell’organo prodigioso tra le gambe faceva di te una vera e propria Dea in Terra, l’intero corpo femminile era considerato numinoso: all’interno della società matriarcale le donne godevano di enorme prestigio, sia per la loro capacità di procreazione sia per l’aspetto del puro piacere orgasmico, al quale potevano liberamente abbandonarsi. La loro posizione preminente non le induceva a sottomettere gli uomini, perché erano sicure di sé, appagate, esaltate dalla venerazione di cui erano oggetto: «Il culto della vagina sacra e della sessualità femminile come metafore del divino si diffuse in Europa prima dell’arrivo del cristianesimo» (Wolf, 2013). Era il tempo delle primitive società di “caccia e raccolta”, vivevano tutti in pace e armonia, ognuno si dedicava a quello che gli riusciva meglio.

Ma un giorno tutto cambiò. Accadde che un uomo, specchiandosi in una pozza d’acqua, mettesse in relazione le proprie enormi orecchie a sventola con quelle di un bambino appena venuto al mondo: lui e il piccolo erano proprio due gocce d’acqua. Accidenti, aveva scoperto la paternità. Questo felice periodo di armonia, sesso sfrenato e paleo-dieta finì, e cominciarono i guai.

Prima, durante l’era matriarcale, sebbene vivessero in armonia con le donne, gli uomini inconsciamente avevano sofferto di invidia della porta celeste, la vagina, per cui dopo la scoperta della paternità il loro ego ebbe un’impennata, e si convinsero che fosse la loro bacchetta magica a rendere possibile la vita. Quando Madre Natura aveva predisposto nel maschio la competitività lo aveva fatto ingenuamente, per favorire la selezione  naturale; ma ora qualcosa era sfuggito di mano e l’uomo ubriaco di onnipotenza desiderò padroneggiare sull’intero Creato. Tutta colpa di un tris di sostanze rilasciate nel cervello dei mammiferi, pensato dalla Natura come goduriosa ricompensa al sesso (altrimenti non lo farebbe nessuno), ma anche conseguente all’attività aerobica, dovendo rincorrere il proprio pasto con un giavellotto in mano: la dopamina, l’ossitocina e gli endocannabinoidi, i cosiddetti ormoni del benessere. Sostanze che possono innescare una dipendenza compulsiva: poco male finché si tratta di sesso e running, è tutta salute; purtroppo questi ormoni sono rilasciati anche esercitando l’avarizia e il dominio sugli altri: il patriarcato nacque in sostanza come una tossicodipendenza, e tutt’oggi affligge quasi ogni angolo del Globo terrestre.

Con il patriarcato si formò anche un abbozzo di stratificazione sociale, e comparvero l’agricoltura e l’allevamento, attività che richiedevano un lavoro organizzato e il possesso di terra e animali. E lavoratori, preferibilmente sottopagati: le donne furono subito ingaggiate in questa falange, e tuttora ne fanno parte. Caduta in disgrazia la sua popolarità, la donna si ritrovò accanto un uomo che le era superiore fisicamente e che aveva tenuto per sé le armi per la caccia; un uomo con la dopamina fuori controllo, un drogato sempre in cerca della sua dose di predominio e avidità: d’ora in poi sì, la donna sarebbe stata veramente nella merda, come si usa dire con schiettezza anche in paleontologia.

Gli uomini provarono un gran gusto nel dominio sugli altri: il 50% della popolazione fu quindi facilmente sottomesso, e con la stratificazione sociale anche gli uomini non furono più tutti uguali. Un disastro dietro l’altro per colpa delle orecchie a sventola di quel neonato.

«Le società patriarcali, che pure non possedevano le nostre conoscenze scientifiche, si erano accorte» dice Naomi Wolf «che le donne sessualmente più assertive e consapevoli erano anche le più concentrate, motivate, energiche e biologicamente potenti» (Ibid.). Perciò fu un gioco da ragazzi dominarle: si fondarono all’uopo religioni che veneravano un dio maschile, e gli si attribuì il disprezzo per il corpo femminile, che da numinoso divenne demoniaco; il controllo della primordiale forza delle donne si realizzò nella repressione degli istinti e in particolare della loro sessualità selvaggia, ed ebbe come diretta conseguenza l’alienazione da se stesse e il crollo verticale della loro autostima. All’improvviso le donne furono considerate colpevoli di malefatte di un certo rilievo, come il “peccato originale”. Dalle stelle alle stalle.

La scoperta della paternità si portò dietro anche l’insano desiderio che questa fosse certa, così di lì in poi la sessualità femminile sarà sempre più imbrigliata saldamente da religioni, dogmi, culture, censure, stigmi, depotenziata da cinture di castità e ogni genere d’inibizione fisica e psicologica. Il desiderio fu strappato via dal corpo delle donne. Furono tutte obbligate alla dipendenza economica e giuridica da un uomo, in questo modo fu possibile imporre loro la divisione in due categorie base socialmente controllabili: le fedeli e caste “donne per bene” mogli e madri, e le “donnacce”, sessualmente “libere” ma marchiate dall’infamia. Lo stigma sulle cattive servì a tenere a bada le buone: reputazione e vergogna furono le leve principali di un sistema di controllo di inesauribile efficacia. La nostra più profonda essenza fu spaccata in due, e noi stesse slegate le une dalle altre, grazie alla contrapposizione forzata tra sacro e profano, che prima non esisteva. Castità, sottomissione e obbedienza divennero virtù alle quali aspirare, e ridefinirono la posizione della donna nella società.

In questo modo l’equilibrio dell’Umanità si perse per sempre. Il maniacale controllo della vita e del corpo delle donne si concretizzò nella loro segregazione: fu impedito loro il contributo attivo all’evoluzione delle comunità, non poterono più per molti millenni lasciare un segno significativo del loro passaggio su questo Pianeta, né contrastare la deriva dell’avidità e del dominio sugli altri che si tradusse nelle infinite guerre, nelle schiavitù, nello sfruttamento di tutti gli esseri viventi e nella distruzione sistematica dell’ambiente. Tutti effetti collaterali della dopamina compulsiva di tragica attualità.

È in quest’ottica che ora dovreste rileggere l’epigrafe di Emmeline Pankhurst che apre questo libro:

Dobbiamo liberare metà della razza umana, le donne, così loro possono aiutare a liberare l’altra metà.

Se fossimo tutti liberi, potremmo tornare all’equilibrio primordiale, dove la Natura creò donne e uomini uguali, e diversi perché potessero completarsi. Non è una questione di orientamento sessuale, il discorso riguarda tutti, l’Umanità nel suo complesso, l’interazione tra gli individui e con l’ambiente. Come si torna al Paleolitico Superiore senza passare per una devastazione post-atomica? Liberiamo le donne: se fossero tutte libere di esprimere la loro vera femminilità, potrebbero aiutare gli uomini a disfarsi del desiderio di dominare gli altri, e tornerebbero ad essere veri uomini, connessi con la Natura.

Non è una cosa semplice, perché come diceva Goethe «Nessuno è più schiavo di colui che si ritiene libero senza esserlo»: le donne Occidentali pur avendo conquistato la parità sociale, politica e giuridica, sono oggi più che mai schiave di canoni estetici che le inducono a ritenere i loro corpi imperfetti, così dedicano energie, tempo e denaro a torturare ogni centimetro quadrato del loro corpo, insinuando il sospetto di una tendenza masochistica. Privato dell’istinto e della sua numinosità, il corpo femminile è diventato un “malato inguaribile”: impuro per le società teocratiche e imperfetto per quelle capitalistiche. Il perseguimento di un canone di bellezza e comportamento illude le donne di poter guarire la malattia immaginaria del “corpo imperfetto”, quando invece equivale a posare la testa sul patibolo sperando che il boia ci faccia un bel taglio di capelli. Clarissa Pinkola Estés ha una risposta:

[…] perché le donne continuano a cercare di piegarsi e di assumere forme che non solo le loro? […] non si tratta di masochismo profondamente radicato né di una dedizione malevola all’autodistruzione […]. Di solito, semplicemente una donna non sa che fare di meglio: è orfana di madre.

Nessuna madre, dal bambino con le orecchie a sventola in poi, ha più potuto proteggere le figlie dalla depredazione culturale dell’istinto femminile: «Quando gli istinti sono danneggiati, gli esseri umani “normalizzano” un assalto dopo l’altro, atti di ingiustizia e di distruzione contro loro stessi, i figli, le persone amate, la loro terra e persino i loro Dei» (Pinkola Estés, 2016).

Non è facile stabilire cosa sia la femminilità quando si vive in società che l’hanno addomesticata per millenni. Proviamo a scoprire quello che non è.

(Betty Argenziano, “Alle donne piace soffrire?”, 2017; edizione riveduta e ampliata aprile 2019)


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